IL CONSIGLIO NAZIONALE RAGIONIERI
   Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso proposto dal rag. Rocco
 Palmisano residente in Francavilla Fontana, via San Lorenzo n. 24 con
 studio  in  Francavilla Fontana, via Barbaro Forleo n. 25, avverso la
 delibera del consiglio del collegio dei ragionieri di Brindisi del 13
 marzo 1998.
                               F a t t o
   Con ricorso a  questo  Consiglio  nazionale  depositato  presso  il
 collegio  dei  ragionieri  di  Brindisi in data 20 aprile 1998, cosi'
 come pervenuto dal Ministero di grazia e giustizia il  successivo  17
 agosto,  il  rag.   Rocco Palmisano impugna la delibera del consiglio
 del collegio di Brindisi del 13 marzo 1998, notificata  il  1  aprile
 1998,   contenente   il  provvedimento  di  radiazione,  con  effetto
 immediato, nei confronti dello stesso ricorrente, disposto  ai  sensi
 dell'art. 38 dell'ordinamento professionale.
   Quanto alle vicende sottese al ricorso si rappresenta quanto segue.
   Nella  seduta  del  13  marzo  1998,  il  consiglio del collegio di
 Brindisi prendeva conoscenza del fatto  che  -  con  sentenza  del  7
 ottobre  1994  (divenuta  irrevocabile  il  25  novembre  1994) dalla
 pretura di Brindisi, sez. di Francavilla Fontana - era stata inflitta
 al rag. Palmisano la pena complessiva di mesi otto di  semidetenzione
 e  L.  600.000  di  multa  per  i  reati  di  contraffazione e truffa
 continuata, con sospensione condizionale della pena medesima.
   Il consiglio del collegio di Brindisi, ritenendo che, in tal  modo,
 il rag. Palmisano aveva gravemente compromesso la propria reputazione
 e  la  dignita'  della professione, deliberava contestualmente, e con
 decorrenza immediata, la radiazione dello stesso ex art. 38 O. P.
   Con il ricorso in esame, il rag.  Palmisano  chiede  l'annullamento
 del   provvedimento   in   oggetto,   previa  sospensione  della  sua
 esecutorieta', sulla base dei seguenti motivi:
     1)  nullita'  del  procedimento  disciplinare  per   difetto   di
 istruttoria.  Violazione del  diritto costituzionale di difesa di cui
 all'art.   24 Cost., cosi' come attuato nella specie dall'art. 41 del
 d.P.R.   27 ottobre 1953, n.  1068.  Il  consiglio  del  collegio  di
 Brindisi  ha  pronunciato  il  provvedimento di radiazione senza aver
 concesso all'interessato la possibilita' di  difendersi,  avvalendosi
 cosi'  della  facolta'  all'uopo prevista dall'art. 38, ultimo comma,
 O.P. Il ricorrente deduce, al  riguardo,  la  prevalenza  -  su  tale
 ultima  disposizione  -  dell'art.   41 O.P., nella parte in cui esso
 prevede che "nessuna pena disciplinare puo' essere inflitta senza che
 l'incolpato sia stato invitato a comparire avanti  il  Consiglio  con
 l'assegnazione  di un termine non inferiore a dieci giorni per essere
 sentito nelle sue discolpe. L'incolpato  ha  facolta'  di  presentare
 documenti  e  memorie difensive". Tale opzione esegetica s'imporrebbe
 ex art. 24 Cost.,  che  tutela  il  diritto  di  difesa,  definendolo
 inviolabile.  Nella  medesima  prospettiva,  bisognerebbe  quantomeno
 garantire  all'incolpato  la  facolta'  di   presentare   memorie   e
 documenti.  In subordine, il ricorrente prospetta la q.l.c. dell'art.
 38, ultimo comma O.P., per contrasto - appunto - con l'art. 24 Cost.
     2)  nel  merito  ed  in  via  subordinata:  violazione  e   falsa
 applicazione  dell'art.  38 d.P.R. n. 1068/1953 cit. Il consiglio del
 collegio di Brindisi ha ritenuto di adottare il  provvedimento  della
 radiazione,  ritenendo che fosse intervenuta una sentenza di condanna
 ai sensi dell'art 38, comma 2, O. P. L'assunto del consiglio  sarebbe
 erroneo  ed infondato. Contrariamente a quanto ritenuto dal consiglio
 del collegio di Brindisi, non  si  tratterebbe  di  una  sentenza  di
 condanna, poiche' la sentenza di applicazione di pena su richiesta di
 cui  all'art.    444  del  c.p.p.  non  sarebbe  da ritenere tale (il
 ricorrente,  sul  punto,  cita  la  giuriprudenza   della   S.C.   di
 Cassazione).
   Il  ricorrente,  peraltro,  argomenta che: a) vivendo in un piccolo
 centro come quello di Francavilla Fontana; b) in presenza  di  talune
 circostanze  di  ambigua  valutazione;  c)  al  fine  di  evitare una
 pubblicita'  negativa  ed  il  clamore  che  sarebbe  derivato  dalla
 celebrazione   di   un   processo;  a)+b)+c),  egli  aveva  preferito
 concludere  la  vicenda  con  il  patteggiamento.  Tali   circostanze
 dovrebbero  quindi  escludere,  secondo  il  rag.  Palmisano,  che il
 provvedimento  impugnato  possa  legittimamente  fondarsi,   in   via
 residuale,   sull'art.  38,  comma  1,  d.P.R.  cit.,  non  essendosi
 concretata alcuna vulnerazione della  reputazione  e  della  dignita'
 professionale.
   Unitamente  al  ricorso  in  questione,  sono  altresi' pervenute a
 questo  Consiglio  nazionale  le  controdeduzioni  del  collegio  dei
 ragionieri  di  Brindisi, il quale, nel difendere il proprio operato,
 osserva quanto segue:
     1) sulla  pretesa  nullita'  del  procedimento  disciplinare  per
 difetto  di istruttoria. L'art. 38, ultimo comma, O.P. attribuisce la
 facolta'  di   deliberare   la   radiazione   anche   senza   sentire
 l'interessato.  Nel  caso  di  specie, l'avvenuta radiazione del rag.
 Palmisano e' stata motivata dalle seguenti circostanze:
      a) il preventivo procedimento di sospensione dall'Albo, per mesi
 due (provvedimento adottato dal consiglio del  collegio  in  data  26
 novembre  1993, in esecuzione dell'ordinanza del 24 novembre 1993 del
 g.i.p. della pretura circondariale di Brindisi);
      b) la particolare gravita' dei reati contestati. I reati di  cui
 agli  artt.  468  e  469 c.p. rientrano infatti nei delitti contro la
 fede pubblica, e sono quindi gravi se riferiti  ad  un  soggetto  che
 esercita  una  professione intellettuale, rappresentando una evidente
 inosservanza dei principi deontologici che regolano  la  professione.
 Il  consiglio  periferico  ha il dovere di esercitare un'attivita' di
 controllo al fine di tutelare la onorabilita' e la reputazione  della
 professione  nei  confronti  sia  degli  iscritti  sia  dell'opinione
 pubblica e dell'autorita' giudiziaria;
     2) con riferimento al secondo motivo di ricorso. Come   sostenuto
 dal  rag. Palmisano, l'interpretazione giurisprudenziale formatasi in
 relazione all'art. 444  c.p.p.,  esclude  che  si  possa  parlare  di
 sentenza di condanna in caso di applicazione di pena su richiesta, ma
 nella  specie ci si trova di fronte ad una ipotesi di responsabilita'
 tale da escludere la presunzione di innocenza.
   Peraltro, senza con cio' voler entrare nel merito della scelta  che
 ha  portato  il  rag.  Palmisano alla richiesta di applicazione della
 pena ai sensi del cit. art. 444, il Consiglio resistente  rileva  che
 la  stessa scelta potrebbe essere stata presa in ragione del pericolo
 di incorrere in sanzioni di maggiore gravita'.
                             D i r i t t o
   Esaminata la documentazione agli atti e considerate le eccezioni ed
 osservazioni emergenti dal  ricorso  e  dalle  memorie  il  Consiglio
 nazionale osserva quanto segue:
     1)  con  sentenza  ex  art.  444,  c.p.p. della pretura penale di
 Brindisi, sez. Francavilla Fontana, in  data  (7)  21  ottobre  1994,
 divenuta  irrevocabile  il successivo 25 novembre 1994, il ricorrente
 rag. Palmisano e' stato condannato a 8 mesi di semidetenzione e a  L.
 600.000 di multa, oltre che per "truffa" (art. 640 c.p.), anche per i
 reati previsti agli artt. 468 e 469 c.p.
   Con  riferimento  alla  fattispecie  di reato di cui al citato art.
 468 ("contraffazione di altri pubblici sigilli o strumenti  destinati
 a  pubblica  autenticazione  o certificazione e uso di tali sigilli e
 strumenti contraffatti"), si tratta di un  delitto  "contro  la  fede
 pubblica",  per  la  quale "la legge commina la pena della reclusione
 non inferiore (....) nel massimo a cinque anni". Si verte, cioe',  in
 una ipotesi che comporta ipso jure, per il ragioniere professionista,
 la  sanzione  della radiazione dall'Albo, ex art. 38, comma 2, d.P.R.
 27 ottobre 1953, n. 1068.
   L'art. 38 ult. cit., al comma 4 stabilisce  espressamente  che  "la
 radiazione  nei  casi previsti dai commi secondo e terzo del presente
 articolo  e'  dichiarata  dal  collegio,  sentito,  ove   lo   creda,
 l'interessato".
   Nella  specie,  il  consiglio del collegio di Brindisi non ha fatto
 uso della facolta' di cui si tratta, irrogando la gravissima sanzione
 della radiazione senza preventivamente disporre l'audizione del  rag.
 Palmisano;
     2)  contrariamente  a  quanto  dedotto  dal  rag. Palmisano nel 1
 motivo di ricorso, qui non viene  in  rilievo  alcuna  violazione  di
 legge,  dal  momento  che  il  comportamento del Consiglio periferico
 appare totalmente conforme al disposto di cui al sopra riportato art.
 38, comma 4, d.P.R. cit.
   Ne' e'  parimenti  ammissibile  la  prospettazione  del  ricorrente
 medesimo (v., ancora una volta, il 1 motivo del ricorso), nella parte
 in  cui  tende  a  ritenere  prevalente,  sulla  norma  di  legge  in
 questione, il  contenuto  dell'art.  41,  d.P.R.  cit.,  secondo  cui
 "nessuna pena disciplinare puo' essere inflitta senza che l'incolpato
 sia stato invitato a comparire avanti il consiglio con l'assegnazione
 di  un  termine non superiore a giorni dieci per essere sentito nelle
 sue discolpe. L'incolpato  ha  facolta'  di  presentare  documenti  e
 memorie difensive".
   Non    e',    infatti,    possibile   adottare   un'interpretazione
 "adeguatrice" - per ricondurre l'operato del legislatore al  rispetto
 dei  parametri  costituzionali  di  volta in volta invocati (e, cioe'
 nella specie, l'art. 24, comma 2 Cost.)  -  quando  ci  si  trovi  di
 fronte   a  disposizioni  di  legge  la  cui  formulazione  letterale
 impedisce radicalmente l'applicazione del principio di  conservazione
 degli atti legislativi. Un'ipotesi, quest'ultima, che si realizza, in
 maniera  lapalissiana,  proprio nel caso in esame, dal momento che lo
 stesso art. 41 cit., dispone in via espressa che  restano  "ferme  le
 disposizioni  di  cui  agli  artt.    38, ultimo comma, e 39, secondo
 comma".
     3)  cio'  premesso,  in  considerazione  del  fatto  che   questo
 Consiglio  nazionale, nell'esercizio delle funzioni de qua, ha natura
 di organo giurisdizionale ai sensi dell'art. 23, legge 11 marzo 1953,
 n. 87 (cfr., infatti, Corte cost., ord. n. 387 del 1990), si  ritiene
 necessario   sollevare   d'ufficio   una  questione  di  legittimita'
 costituzionale sull'art. 38, comma 4, d.P.R.  n.  1068/1953,  nonche'
 sull'art.  41  primo  alinea  dello  stesso  decreto legislativo, per
 contrasto con l'art. 24, comma 2 Cost.,  anche  in  riferimento  agli
 artt. 2, 3 e 97 della Costituzione.
   Si tratta, infatti, di una q.l.c. la quale: a) e' rilevante ai fini
 del  decidere  (il che, dopo quanto precedentemente dedotto, e' in re
 ipsa); b)  si  palesa,  ad  una  sommaria  deliberazione,  come  "non
 manifestamente infondata";
     4)  sotto  quest'ultimo  punto di vista, infatti, vi e' un dubbio
 (piu' che) ragionevole che le disposizioni di legge di cui si  tratta
 violino  il  disposto  di  cui  al  gia' cit. art. 24, comma 2 Cost.,
 secondo cui "la difesa e' diritto inviolabile in ogni stato  e  grado
 del procedimento".
   Si   tratta   di  uno  dei  principi  supremi  del  nostro  sistema
 costituzionale (v., infatti, Corte cost., sentenza n. 18  del  1982),
 posto  a  tutela  di  una situazione giuridica soggettiva qualificata
 espressamente "inviolabile" e che, come tale, rientra nel novero  dei
 diritti assoluti della personalita' ex art. 2 Cost.
   Il   diritto   di   difesa,  pertanto,  e'  dotato  di  una  sicura
 pervasivita', irradiandosi in ogni settore  dell'ordinamento  in  cui
 vengano  in  rilievo  controversie in tema di diritti soggettivi e di
 interessi legittimi.    Il  che,  poi,  e'  confermato  dalla  chiara
 formulazione  letterale  del  gia'  piu'  volte cit. art. 24, comma 2
 Cost., secondo cui tale diritto e' assicurato "ogni stato e grado del
 procedimento". In tale ambito, cioe', la  nozione  di  "procedimento"
 deve     essere    interpretata    estensivamente    (rectius:    non
 riduttivamente), ricomprendendo al suo interno anche  i  procedimenti
 amministrativi giustiziali, come quello di specie.
   Senza  contare,  poi,  che in un contesto para-giurisdizionale come
 quello in esame, i principi costituzionali  sulla  giurisdizione  (in
 senso  lato)  si  impongono  ab  imis,  in  forza  del  principio  di
 ragionevolezza (ex art. 3 Cost.),  ove  sistematicamente  considerato
 alla luce del principio di buon andamento della p.a. (di cui all'art.
 97  Cost.).    Cosicche',  comunque  sia,  anche nella prima fase del
 procedimento disciplinare (ancorche' avente  natura  amministrativa),
 l'interessato  deve  essere  posto in condizione di difendersi, senza
 eccezioni o limiti di sorta.
   A cio' si aggiunga che la legge 7 agosto 1990, n. 241,  assicura  -
 in  via  generale  -  ai  soggetti  interessati  la  possibilita'  di
 partecipare al procedimento amministrativo (cfr., infatti, gli  artt.
 7 ss. l.  ult. cit., con peculiare riferimento all'art. 10, lett. b).
 Cio'  posto,  e' evidente che, in capo ai soggetti che ricadono nelle
 maglie delle disposizioni di legge di cui si  discute,  si  determina
 un'irragionevole  disparita'  di  trattamento  in senso peggiorativo,
 come tale illegittimita' ex se ai sensi dell'art. 3 Cost.
   Per di piu', se e' vero - e cosi' e' - che la sopra cit.  legge  n.
 241  ha  semplicemente "codificato"   criteri generali dell'attivita'
 amministrativa, rendendo esplicito quanto gia' contenuto - in nuce  -
 nel  disposto  di  cui  all'art. 97, comma 1 Cost., si ha con cio' la
 conferma che le medesime disposizioni di legge contrastano di per se'
 con il principio di buon andamento della p.a.
   Ne' puo' eccepirsi alcunche', in senso contrario, dal fatto che, in
 casi come questo, il soggetto sottoposto a procedimento  disciplinare
 e'  gia'  stato  condannato  in  sede  penale, cosicche' (in denegata
 ipotesi)  l'autorita'  amministrativa  ben  potrebbe   adottare   una
 sanzione "automatica" sulla base di questo semplice presupposto.
   Ed infatti, delle due l'una:
     a)  o  la  condanna  in  sede  penale  e' autosufficiente ai fini
 dell'irrogazione della sanzione disciplinare;
     b) ovvero, anche in tale ambito il  principio  di  autonomia  tra
 procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare  e'  destinato  a
 mantenere una certa valenza, sia pur residuale.
   Vera - per assurdo - la prima ipotesi, si avrebbe allora un'inutile
 duplicazione di procedimenti, con  conseguente  irragionevolezza  (ex
 art. 3 Cost.) della previsione - in tale evenienza - del procedimento
 disciplinare,   che  contrasterebbe  altresi'  con  il  principio  di
 efficienza della p.a. (deducibile sempre dall'art. 97 Cost.).
   Vera, invece, la seconda ipotesi - che, a ben vedere, e' l'unica ad
 essere compatibile con l'attuale sistema i termini  della  questione,
 sostanzialmente,  non  cambiano, perche' pure in tal caso si concreta
 una palese violazione (anche) del  principio  di  ragionevolezza  (ex
 art.  3  Cost.),  nonche'  del principio di buon andamento della p.a.
 (ex art. 97 Cost.), a causa dell'esistenza  di  un  "meccanismo"  che
 pone  l'autorita'  decidente  nella  condizione di poter irrogare una
 sanzione grave  come  quella  in  esame,  senza  dover  concedere  al
 soggetto  interessato di esercitare il fondamentale diritto di difesa
 di cui al gia' piu' volte cit. art. 24, comma 2 Cost.